L’appello di Alessandro D’Avenia. Mondadori 2020

Una classe è fatta di alunni, sempre più spesso ridotti a numeri ai quali corrispondono nomi segnati su un registro. Omero Romeo è un insegnante di quarantacinque anni e da cinque è diventato cieco. Ha scelto di riprendere l’insegnamento ma l’incarico che riceve lo porta in una classe ghetto di un liceo scientifico. Dieci alunni problematici che sono stati messi tutti insieme col solo scopo di essere portati alla maturità, qualunque cosa succeda. Da professore cieco, Omero introduce un nuovo modo di fare l’appello che precede la lezione. Ogni alunno deve dire il suo nome e parlare di se per abituare l’insegnante alla sua voce e deve permettere al professore di toccargli il volto. Così, tra una teoria di fisica e l’altra, tra brani di filosofia, poesia, rap e appunti sparsi di vita, questi ragazzi smettono di essere numeri. Scoprono ogni giorno di più di essere importanti per il loro professore e per gli stessi compagni di classe. In questo modo i ragazzi si raccontano e confidano cose di se che non hanno mai detto ad altri. Questo nuovo modo di fare l’appello esce dai confini di quella classe e di quella scuola. Del nuovo modo del professor Romeo di fare l’appello si inizia a parlare ovunque finché se ne interessano anche i media e i giornali. Una denuncia della scuola così come è ora, una immersione in un’adolescenza sempre molto problematica e difficile. Già una trama con protagonista un cieco di nome Omero mi aveva leggermente scoraggiata, ma visto che ho amato D’avenia nei suoi primi romanzi ho voluto dargli una possibilità, anche per capire come avesse tratteggiato la figura del professore cieco, visto che di cecità mi intendo abbastanza. Troppa cecità sbandierata, fatta anche di una ironia che conosco bene e pratico volentieri, ma non in modo così marcato, soprattutto per giustificare comportamenti, denunciare cose sbagliate, difendere le idee degli alunni. Ma anche troppa roba: fisica, filosofia, linguaggio ricercato che in bocca o in penna ad uno scrittore ci sta, ma non sempre in bocca e in cervello di ragazzi di diciotto anni che per di più vivono situazioni familiari e personali complesse. Ma poi... Possibile che per denunciare, affermare ideali, cambiare le cose, bisogna sempre avere come protagonisti adolescenti già stanchi di vivere? Possibile che l’adolescenza debba sempre essere associata ad atteggiamenti di schifo nei confronti della vita? Capisco che in questa trama forse questo atteggiamento ci sta tutto perché i ragazzi vivono situazioni molto difficili, ma personalmente ritengo che anche l’associazione adolescenza - schifo di vivere sia diventato uno stereotipo abusato oramai in romanzi, fiction, film, ecc. ecc. Poi, ultima cosa, da persona non vedente che vive la cecità da quando è nata: io non ho bisogno di toccare il volto per conoscere le persone che ho di fronte. Primo perché non occorre ai fini di una conoscenza, secondo perché mi sembra un modo per mettere in imbarazzo le persone mentre compito di chi non vede è cercare di porre subito un freno al disagio iniziale che chi vede può provare nei confronti di chi non vede. Sono altri i parametri su cui, io, cieca dalla nascita, fondo la conoscenza e i legami stabili con le persone. Un libro che ho concluso con fatica. Pur apprezzando la ricercatezza e la cultura di D’Avenia, percepisco sempre più qualcosa di artefatto nei suoi romanzi. Una sensazione che me li fa apprezzare sempre meno e me li fa concludere con sempre maggiore fatica.

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